– Come va a casa? È tranquillo il bimbo?
– Sì. Come un ordigno inesploso della prima guerra mondiale. Tutto ok, insomma. (Dialogo “rilassato”, tra mio marito e me)
Una cosa che spiego spesso quando lavoro è la difficoltà di osservare una situazione da un punto di estraneità alla faccenda. Sgombero subito il campo da ogni dubbio: non si può. Nel migliore dei casi possiamo tenere in conto soltanto che al nostro punto di vista mancano un vasto numero di angolazioni.
È per questo che la saggezza non può essere patrimonio di un solo individuo, ma accadesempre in una relazione ed è per questo che agli insegnanti, agli educatori, agli psicologi possono capitare figli poco studiosi, maleducati, o bisognosi di aiuto esattamente come agli altri.
Lo confesso, ho chiesto un colloquio alle educatrici di mio figlio e l’ho trovato utilissimo 🙂
Secondo la teoria dell’attaccamento, in breve, siamo tanto più sereni quanto più viviamo in equilibrio tra il nostro bisogno di esplorare e il nostro bisogno di avere una base sicura e accogliente a cui tornare in caso di difficoltà. Questo vale dal massimo della concretezza, per esempio la distanza fisica che il nostro bambino percorre gattonando lontano da noi prima di guardarsi indetro, al massimo dell’astrazione, per esempio affrontando consapevolmente paure ed emozioni che riguardano l’innamorarsi di un nuovo partner o il competere per una posizione lavorativa desiderata.
Quando siamo noi ad essere la base, la questione diventa delicata e ingarbugliata perché riguarda la libertà che concediamo ai nostri bimbi, o le situazioni in cui interveniamo bloccando, incoraggiando, sostenendo, censurando.
Questo libro è stato utilissimo. È scritto bene, in modo scorrevole e piacevole. Non è un manuale su come si educano i bambini, è un libro che ci fa riflettere su come, in qualità di genitori, alle volte interveniamo non tanto in base al bisogno che un bambino manifesta attraverso un’emozione, ma in base all’effetto che l’emozione del bambino ha su di noi.
Se vostro figlio fa i capricci al parco e lo portate via, questa reazione ha a che fare con il bisogno del bambino di imparare a stare al parco in armonia con gli altri bambini o con l’imbarazzo che un capriccio genera in voi davanti agli altri genitori?
Dopo il colloquio con le educatrici, mi è tornato in mente un mondo di suggestioni del mio periodo di formazione, il modo in cui gestisco le mie emozioni al lavoro e come mi capita sempre quando il problema riguarda me, concludo con “Cavolo, però lo sapevo”.
Non si sfugge, la saggezza non è un patrimonio individuale, è qualcosa di magico che accade all’interno di una relazione.
Più mio figlio cresce, più mi rendo conto che il suo pianto segnala sempre meno un bisogno fisico e sempre di più il bisogno di sostituire il pianto con una strategia. L’altra sera mio marito lo ha legittimamente sgridato
“Federico, BASTA!”
Apriti cielo.
La cosa è andata avanti per un po’, finchè quel patrimonio di relazioni (le educatrici, le mie amiche, la mia mamma) non hanno fatto capolino con:
“Amore, non c’è bisogno di piangere, vai da papà, gli dici ‘scusa, non lo faccio più’ e poi fate la pace”
Ha funzionato.
Quando un bambino piange, ci sono emozioni immediate: quelle sono nostre. Può essere preoccupazione, o stanchezza e perchè no? Noia. Bloccare il pianto con delle cure, risponde alla nostra preoccupazione, prendere il bambino in braccio per calmarlo risponde alla nostra stanchezza, sbuffare è un modo per abbassare il nostro senso di noia. Ma cosa vuol dire quel pianto? E la risposta che diamo che senso dà al bambino di se stesso e delle proprie capacità?
Ecco, a dispetto del proverbio, la prima risposta che ci viene in mente non è quasi mai quella che conta. Bisogna aspettare, stare un un pochino immersi nell’emozione, passarci attraverso perchè si calma da sola in qualche istante e poi riflettere. Basta davvero qualche secondo in più. Le educatrici del nido mi hanno ribadito un concetto che in cuor mio già sapevo: bisogna sostituire il pianto con le parole.
Ognuno di noi ha una storia personale e blocca ai propri figli le emozioni che ha difficoltà a gestire, per “risparmiare” loro quello che ritiene essere un problema e lo fa sempre con le migliori intenzioni. La conseguenza però, è che i nostri figli non si alleneranno a fare fronte a quell’emozione e non impareranno ad affrontarla. Impareranno a piangere tutte le volte che la incontrano, o ad ignorarla, o a sentirla in modo confuso senza saper dire cosa sia, o a sentirla come una malattia fisica o vattelapesca cosa.
Nella saggezza dei nonni, quando un bimbo si fa male, dire “cattivo tavolo!” significa riconoscere il dolore o lo smacco per aver preso una zuccata e dare al bimbo una strategia per reagire al dolore.
Memore di questo, oggi Federico si stava arrampicando sul divano, ha preso una piccola botta contro al mobile, si è lamentato e gli ho suggerito: “Fai così, che ti passa”, strofinandomi la mano sulla testa. Lo ha fatto, ha sorriso e poi si è cappottato dove voleva.
Insomma, il pianto dei bambini è urticante, non sentitevi in colpa se vi fa quell’effetto.
Ma se volete sostituirlo con qualcosa di più duraturo, cercate di sentire l’emozione che vi dà il pianto, aspettate qualche secondo che passi il picco (di fastidio, rabbia, noia, preoccupazione o quello che è), date un nome all’emozione che il bambino prova (se la riconoscete) e dategli una strategia per farvi fronte. E’ l’unico modo per renderli autonomi.
Perchè crescono alla svelta e dopo un po’ prenderli in braccio è un serio problema 😉
Dedicato alle mie amiche mamme e alle preziose educatrici del nido